Interruzione volontaria di gravidanza: il Consiglio d’Europa (ri)condanna l’Italia
Il 24 marzo 2021 sono state pubblicate le Conclusioni 2020 del Comitato europeo dei diritti sociali, l’organo del Consiglio d’Europa deputato al controllo del rispetto della Carta sociale europea, relative al follow-up delle decisioni sul merito dei reclami collettivi. Tra i casi che coinvolgono l’Italia, particolarmente significativo è quanto emerso dal monitoraggio delle violazioni rilevate nel 2013 riguardanti l’applicazione della legge italiana sull’interruzione volontaria di gravidanza (IVG) (Reclamo n. 87/2012, decisione sul merito del 10 settembre 2013).
A seguito dell’esame del reclamo collettivo presentato dall’associazione International Planned Parenthood Federation (sostenuta da altre associazioni), il Comitato europeo dei diritti sociali aveva stabilito che l’Italia era venuta meno agli obblighi imposti dall’articolo 11 (comma 1), dedicato alla tutela del diritto alla salute, e dall’articolo E, relativo al principio di non-discriminazione.
Con riferimento all’art. 11 (comma 1), il Comitato aveva concluso che in Italia le autorità competenti non avevano garantito, come invece è previsto dalla legge n. 194/19781, l’interruzione volontaria di gravidanza a tutte le donne che la richiedono – entro i termini stabiliti – in ogni caso, anche quando il tasso di obiezione di coscienza tra il personale sanitario è alto.
Inoltre, il Comitato aveva evidenziato la discriminazione subita dalle donne che decidono di interrompere una gravidanza, costrette, mettendo a rischio la propria salute, a spostarsi (nel territorio nazionale o all’estero) a causa della mancanza di personale non obiettore in alcuni ospedali italiani.
A ben guardare, la discriminazione denunciata è duplice: in primo luogo la disuguaglianza è legata al territorio di appartenenza e/o allo status socio-economico delle donne; non tutte possono accedere a tale prestazione sanitaria nella propria Regione e alcune non possono permettersi di ricercarla altrove. Non secondaria poi è la forma di discriminazione basata sul genere: è sulle donne, infatti, sui loro corpi e le loro vite, che si ripercuote l’inadeguata attuazione della legge 194, come anche sulle persone T e non binarie, che subiscono spesso discriminazioni multiple.
Come ha reagito il Governo italiano alla condanna del Comitato?
Nel Report inviato (protocollato il 10 marzo 2020) l’Italia conferma l’impegno a garantire l’implementazione della legge in materia di interruzione volontaria di gravidanza, ribadendo i limiti imposti dal diritto di obiezione di coscienza del personale sanitario.
Secondo i dati ufficiali forniti dal Governo (relativi al 2017), l’obiezione di coscienza non sembra costituire un ostacolo al diritto delle donne all’IVG non terapeutica: si rilevano, infatti, un lieve aumento a livello nazionale del numero di strutture che si occupano di IVG e l’abbreviazione del tempo di attesa2 tra il rilascio della certificazione del/lla medico/a – attestante lo stato di gravidanza e la richiesta di IVG – e l’intervento. Inoltre, nel documento viene constatato che nel 2017 il numero di IVG (80.733 casi) è calato del 5% rispetto all’anno precedente, probabilmente anche grazie alla maggiore diffusione dell’uso della contraccezione d’emergenza e, più in generale, agli interventi rivolti alla promozione della procreazione responsabile.
Per quanto riguarda più precisamente le conseguenze dell’esercizio del diritto all’obiezione di coscienza, dal Report emerge che anche il carico di lavoro per i/le ginecologi/he non obiettori/trici sta seguendo un trend di decrescita: 1,2 IVG a settimana per ogni ginecologo/a non obiettore/trice, il 25% in meno rispetto al dato del 2014.
Arrivando al merito della recente valutazione del follow-up, di tutt’altro segno sono invece le considerazioni espresse dal Comitato, che denuncia nuovamente le ormai note disuguaglianze territoriali nel godimento dei diritti sociali.
Innanzitutto, secondo l’organo del Consiglio d’Europa, l’Italia non ha ancora soddisfatto la richiesta inoltrata nelle Conclusioni 2018, dove, nonostante la rilevazione di alcuni segni di miglioramento, il nostro Paese era stato sollecitato a rendere conto delle misure che avrebbe preso per diminuire le disuguaglianze locali, registrate nell’accesso all’IVG.
Le informazioni fornite più recentemente, infatti, non dimostrano né una riduzione delle disparità locali e regionali né l’adeguatezza del numero di operatori/trici sanitari/ie dedicati/e. Il Report non spiega se e in che misura la gestione delle Regioni garantisca a tutte le donne l’accesso all’IVG nel proprio territorio: manca un indicatore determinante, ovvero la percentuale di richieste di IVG che non hanno potuto essere soddisfatte in un determinato ospedale o Regione a causa del numero insufficiente di medici/he non obiettori/trici. L’unico dato attualmente disponibile attesta che il 5% delle interruzioni di gravidanza sono eseguite in una Regione diversa da dove risiede la paziente.
A questa omissione si aggiungono le mancate rilevazioni degli aborti “clandestini” e l’assenza di informazioni circa le rivendicazioni avanzate da parte dell’Ordine dei Farmacisti e dal personale impiegato nei Consultori familiari relative alla possibilità di esercitare l’obiezione di coscienza. , fenomeni finora neppure monitorati.
Il Comitato, inoltre, basandosi anche sui commenti inviati dalla CGIL3 riguardanti i dati aggiornati al 20184 (pubblicati a giugno 2020), prende atto che il numero di medici/he obiettori/trici ha continuato a crescere: ad oggi il 69% dei/lle ginecologi/he italiani/e solleva obiezione di coscienza, una percentuale che si alza nelle Regioni meridionali fino a raggiungere il picco del 92,3% in Molise.
Infine – allerta il Comitato – l’emergenza sanitaria in corso ha aggravato le difficoltà vissute dalle donne che decidono per l’interruzione volontaria di gravidanza, ritenuta prestazione non essenziale – e dunque non garantita – in molti ospedali italiani.
In attesa che l’Italia colmi le lacune dei dati e metta in campo misure efficaci per rendere effettive le disposizioni della Carta europea dei diritti sociali, prendiamo atto che le violazioni rilevate otto anni fa ostacolano ancora il godimento del diritto alla salute delle donne che scelgono di interrompere una gravidanza.
Note:
1. Art. 9, comma 4 della legge n. 194/1978: «Gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate sono tenuti in ogni caso ad assicurare lo espletamento delle procedure previste dall’articolo 7 e l’effettuazione degli interventi di interruzione della gravidanza richiesti secondo le modalità previste dagli articoli 5, 7 e 8. La regione ne controlla e garantisce l’attuazione anche attraverso la mobilità del personale».
2. Nel 2017 il 68,8% delle IVG sono avvenute entro i 14 giorni dal rilascio del certificato (il 66,3% nel 2016, 65,3% nel 2015 e il 59,6% nel 2011). La legge n. 194/1978 (art. 5) indica un tempo di attesa di 7 giorni nei casi non urgenti.
3. Presentati il 2 luglio 2020 e relativi a un analogo reclamo collettivo (Reclamo n. 91/2013 v. Italia) presentato dalla Confederazione Generale Italiana del Lavoro (CGIL).
4. Relazione contenente i dati definitivi 2018 sull’attuazione della L.194/78 che stabilisce norme per la tutela sociale della maternità e per l’interruzione volontaria della gravidanza (IVG), presentata in Parlamento dal Ministro della Salute.
Fonti:
EUROPEAN COMMITTEE OF SOCIAL RIGHTS, Follow-up to Decisions on the Merits of Collective Complaints. Findings 2020.
(https://rm.coe.int/findings-ecrs-2020/1680a1dd39).
CONSIGLIO D’EUROPA, Carta sociale europea (1996).
(https://rm.coe.int/carta-sociale-europea/16808b6384)
Legge n. 194/1978.
CARMINATI, La decisione del Comitato europeo dei diritti sociali richiama l’Italia ad una corretta applicazione della legge 194 del 1978, in Osservatorio AIC (Associazione Italiana Costituzionalisti) 2/2014.
(https://www.osservatorioaic.it/images/rivista/pdf/Carminati.pdf)