La violenza ostetrica e la testimonianza di G.
Come si manifesta la violenza ostetrica?
Oggi cerchiamo di comprendere quali siano le forme che assume per poterla riconoscere e contrastare.
In tutto il mondo le donne subiscono quotidianamente trattamenti sanitari lesivi della propria dignità. Questo tipo di abusi e discriminazioni avvengono specialmente nei servizi dedicati alla salute sessuale e riproduttiva. In particolare, sono diverse le esperienze di violenza che possono verificarsi nell’arco della gravidanza e soprattutto durante il parto, quando la paziente è più vulnerabile, affidata alle mani esperte di chi se ne dovrebbe prendere cura.
Secondo l’OMS la violenza ostetrica include
“l’abuso fisico diretto, la profonda umiliazione e l’abuso verbale, procedure mediche coercitive o non acconsentite (inclusa la sterilizzazione), la mancanza di riservatezza, la carenza di un consenso realmente informato, il rifiuto di offrire un’adeguata terapia per il dolore, gravi violazioni della privacy, il rifiuto di ricezione nelle strutture ospedaliere, la trascuratezza nell’assistenza al parto con complicazioni altrimenti evitabili che mettono in pericolo la vita della donna, la detenzione delle donne e dei loro bambini nelle strutture dopo la nascita connessa all’impossibilità di pagare”.
Inoltre, sappiamo che il rischio di subire questa forma di violenza non è equamente distribuito: “adolescenti, donne non sposate, donne in condizioni socio-economiche sfavorevoli, donne appartenenti a minoranze etniche, o donne migranti e donne affette da HIV” sono più vulnerabili delle altre.
Violenza ostetrica significa praticare un cesareo o un’episiotomia (taglio del perineo) non necessari o anche un’epidurale non richiesta.
Significa effettuare palpazioni vaginali e pressioni sul fondo dell’utero in assenza del consenso della donna.
È violenza effettuare la manovra di Kristeller, quella spinta che dovrebbe facilitare il parto, senza informare la paziente dei rischi a essa connessi. In molti Paesi è stata dichiarata illegale; in Italia, invece, è così comune che viene soprannominata dal personale sanitario “l’aiutino”, ma poi non viene mai annotata sulla cartella clinica per ovvie ragioni.
È abuso eseguire interventi privi di anestesia e minimizzare il dolore provato dalle gestanti.
È maltrattamento costringere una donna a partorire in posizione supina (spesso con le gambe sulle staffe), senza rispettare né la sua volontà né i suoi tempi.
È violenza ostetrica ritrovarsi nude ed esposte a tanti occhi estranei (ostetrici/he, ginecologi/he, medici/he specializzandi/e) o essere lasciate da sole per ore in una stanza, senza spiegazioni né una parola di conforto.
Anche colpevolizzare la paziente per quanto sta accadendo, farla sentire inadeguata, spaventarla o minacciarla sono violazioni dei suoi diritti.
E che dire del parto ai tempi del Coronavirus?
L’attuale epidemia di Covid-19 ha acuito anche la violenza ostetrica, aumentando la vulnerabilità delle partorienti anche a causa del divieto senza ragione medica della presenza di una persona cara in sala parto e del contatto pelle a pelle con il/la loro bambino/a.
Non c’è giustificazione alla negazione di un’assistenza rispettosa della maternità e dei diritti umani delle donne.
La prossima settimana analizzeremo insieme alcuni dati sulla violenza ostetrica.
Troverete l’intera campagna informativa sui nostri social (Facebook e Instagram).
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La testimonianza di G.
È difficile trovare le parole…il problema era quando dovevi prenotare tutti gli esami. Quando ero accompagnata da una persona italiana andava tutto bene, ma ricordo che una volta ero da sola e non mi hanno risposto bene. Mi hanno detto che non facevano quelle analisi e che dovevo rivolgermi a un altro ospedale (lontano). È davvero difficile spiegare. Quando sono ritornata con un’operatrice è andato tutto bene e l’esame me l’hanno fatto. Ero triste…sì sono nera ed è per questo che a me non hanno risposto molto bene. È difficile da dire. È stato strano… qui in Italia una donna che scopre di essere incinta ha tante possibilità… in Nigeria non è proprio così. È stato strano.
Per quanto riguarda il parto ho dovuto fare il cesareo…era il mio incubo. Mi sono opposta ma era un’emergenza, la bambina era in sofferenza. Non avevo altra scelta. Per fortuna un’operatrice è entrata con me durante l’operazione e mi stringeva la mano.
Adesso ho un’amica nigeriana che è incinta ed è davvero dura per lei…non ha nessun amico italiano che vada con lei. Nessuno qui vicino.
Io sono stata fortunata, avevo le operatrici che avevano la pazienza di spiegarmi. Ma quando rimanevo sola, loro (il personale sanitario) cambiavano. Non mi parlavano. Ricordo una volta ero ricoverata in ospedale, ero da sola, volevano farmi una puntura, me l’hanno semplicemente fatta senza spiegarmi cosa mi avessero messo dentro il corpo. Se c’era qualcuno, invece, loro spiegavano agli italiani, erano gentili, parlavano, cercavano di tranquillizzarmi, ma quando non c’erano…
Qualche volta chiedevo un tè oppure qualcosa da mangiare… nono.
Quando sono entrata in travaglio un operatore mi ha accompagnata in ospedale. Sono stati gentili e mi hanno fatto entrare in una piscina per farmi passare il dolore. Dicevano: “Questo è il tuo primo parto… vedrai che l’acqua ti aiuterà, stai tranquilla”. Ma appena sono rimasta da sola mi hanno fatto subito uscire senza dirmi nulla.
Ma ciò che mi ha infastidito di più è il front office dove devi prenotare gli appuntamenti… loro non rispettano nessuno. È davvero difficile… ti dicono di andare in altri ospedali lontano… loro non si interessano. Non hanno la pazienza per parlarti, per essere calmi.
Forse per le italiane è diverso ma per noi non è lo stesso.
Non sono proprio rimasta male per come mi hanno trattata perché innanzitutto questo non è il mio Paese e non avevo soldi per pagare.
Una volta ero nella sala dei monitoraggi e mi sono accorta che avevano appeso anche l’ecografia della mia bambina insieme alle altre. E quando ho detto loro che quella era la mia bambina mi hanno detto di no. Io ne ero certa ma loro non mi credevano. Allora ho pensato una bambina nera non potesse stare là insieme agli altri.